Dieta chetogenica (parte 3): applicazioni e diete chetogeniche modificate

Dopo aver approfondito le basi teoriche nella primo e nel secondo capitolo, arriviamo finalmente alla parte più pratica. Prima vedremo le applicazioni pratiche più generali, per poi passare alla trattazione delle differenze tra la normale dieta chetogenica e le cosiddette diete chetogeniche modificate, valutando quale delle varie può essere meglio applicare, con opportune variazioni in base al contesto, alle necessità e alle preferenze.

Le diete chetogeniche modificate sono quelle varianti della normale dieta chetogenica che prevedono l’introduzione dei carboidrati in fasi circoscritte, come può essere il peri-workout o il week end; si parla precisamente della dieta chetogenica ciclica (CKD) e della dieta chetogenica mirata (TKD), le cui caratteristiche saranno descritte nelle sezioni apposite.

Stima del dispendio energetico totale (TDEE)

La cosa migliore per stimare il dispendio energetico giornaliero totale (TDEE) è considerare un periodo di un paio di settimane (più è lungo, più è accurata la stima) in cui possono essere applicati diversi metodi di calcolo. Uno semplice che suggerisco è assumere 35 kcal per peso di massa magra (LBM) o 30 kg per peso corporeo (BW); se dopo queste 2-3 settimane il peso non ha subito variazioni, il TDEE medio coincide con le calorie introdotte; se ha subito una diminuzione, il TDEE medio è superiore all’introito calorico, al contrario se il peso è aumentato il TDEE medio è inferiore all’introito calorico.

Quando la stima del TDEE viene applicata durante una dieta chetogenica, il peso corporeo però può subire rapido abbassamento anche se il grasso corporeo rimane stabile, e questo è dovuto al tipico effetto diuretico accennato nella prima parte: si tratta quindi di acqua e non di grasso. Questo deve essere sempre tenuto in considerazione nel caso si inizi la fase di stima del TDEE in concomitanza con la dieta chetogenica.

Introito calorico (EI) nella dieta chetogenica

Veniamo dunque all’introito calorico in una dieta chetogenica. Come detto, le prime tre settimane sono cosiddette di adattamento chetotico: l’organismo deve essere posto nelle condizioni di effettuare il passaggio da un metabolismo basato su substrati misti (glucosio e acidi grassi) ad uno basato su substrati di origine in predominanza lipidica (acidi grassi e corpi chetonici).

Senza entrare nei dettagli biochimici, accenno solo al fatto che questo shift avviene per la sovraregolazione degli enzimi deputati alla mobilizzazione, al trasporto e all’ossidazione degli acidi grassi, accompagnato a una sottoregolazione di quelli coinvolti nel metabolismo dei carboidrati.

La considerazione da tenere a mente è la seguente: il nostro intelligentissimo organismo si adatta in maniera sublime ad un’infinità di condizioni ambientali e questo caso non è da meno; infatti, tanto più un nutriente è presente, tanto più il corpo diventa abile nell’utilizzarlo.

Per questo motivo, in questa fase di adattamento personalmente suggerisco di mantenere un introito calorico attorno al TDEE (o di poco inferiore), per due motivi:

  • Questo permette un elevato apporto di lipidi dietetici che, per quanto detto, facilitano l’adattamento dell’organismo ad utilizzarli come substrato energetico principale e a consolidare la chetosi;
  • Il taglio dei carboidrati in prima battuta provoca spesso stanchezza, spossatezza, irritabilità e altri effetti collaterali che vanno sotto il nome di keto-flu, e che potrebbero essere aggravati dalla restrizione calorica. Mantenere un apporto calorico abbastanza elevato potrebbe permettere dunque di superare meglio i primi giorni di carenza di carboidrati.

L’eventuale riduzione calorica, dunque, è saggio farla partire dalla seconda o terza settimana dal momento in cui i carboidrati sono stati diminuiti o eliminati (sulla quantità di carboidrati tornerò in un secondo momento). Qui la scelta è del tutto personale, ma è buona norma non superare, tranne eccezioni, un deficit calorico pari a 1000 kcal.

Introito proteico

Il discorso relativo alla quantità di proteine da introdurre nel corso di una dieta chetogenica è stato accennato nella parte 2, in cui si è detto che queste dovrebbero essere più elevate nelle prime tre settimane dall’inizio della dieta e possono essere ridotte successivamente. Indicativamente, durante la fase di adattamento chetotico viene data l’indicazione di attestarsi intorno a 1.7-1.8 g/kg (guarda caso, valori ideali per chi pratica attività fisica), che può scendere ad 1.5 g/kg dopo le prime tre settimane.

Dopo che l’organismo si è adattato all’utilizzo dei grassi e ha iniziato a produrre molti corpi chetonici, il fabbisogno proteico dovrebbe essere tale da garantire un ottimale stato di chetosi; questo perché le proteine sono in parte anti-chetogeniche, quindi un eccesso potrebbe spingere fuori dalla chetosi.

Ci sono diverse controversie in merito e non si sa bene dopo quale soglia le proteine possano definirsi in “eccesso”, anche perché può esistere una certa soggettività (per approfondimenti si veda l’articolo Troppe proteine nella dieta chetogenica?: l’ipotesi dell’eccesso proteico). Quindi il problema è: come accorgersi quando si entra o si esce dalla chetosi? Non è così semplice, ma neppure infattibile.

Nella seconda parte ho parlato dei Ketostix®, delle strisce che rilevano l’acetone nelle urine; il problema è che non sono sempre affidabili perché il risultato può essere falsato. Chi è molto attento ai segnali del proprio corpo, in genere riesce a capire quando si trova in chetosi per una serie di sensazioni che la accompagnano: la sensazione di testa ‘leggera’, la bocca secca, amara o dolciastra, e un effetto di soppressione dell’appetito.

Queste indicazioni sono un po’ aleatorie e quindi non molto affidabili, ma chi le ha provate sa di cosa parlo. Purtroppo non è possibile dire altro con certezza, a meno che non intenda prelevare di sangue per controllare direttamente la chetonemia.

Nella seconda parte dell’articolo ho anche illustrato che l’introito proteico, in teoria, dovrebbe variare a seconda della quantità di carboidrati assunta, perché si riduce la quota di glucosio che deve essere ricavata ex-novo dalle proteine: per ogni grammo di carboidrati assunti, si potrebbe sottrarre mezzo grammo di proteine dall’introito prima calcolato.

Introiti glucidico e lipidico

Tratto in un unico paragrafo il discorso sull’introito glucidico e su quello lipidico semplicemente perché non c’è così tanto da dire.

L’introito glucidico, per il discorso relativo all’adattamento, non dovrebbe superare i 50g/die, ma queste soglie potrebbero essere ridotte nel caso si incontri una difficoltà a entrare in chetosi.

Forse la cosa più importante è però fare in modo che non ci siano aumenti repentini dell’insulina, come quelli che possono verificarsi assumendo in un’occasione esclusivamente carboidrati. La dieta chetogenica infatti da il via libera a verdure fibrose, e sicuramente non conviene puntare su fonti di carboidrati dirette, cioè alimenti ad alta densità glucidica come gli amidi o la frutta .

Per quanto riguarda l’introito lipidico, questo è semplicemente pari alla quantità di grassi occorrente per raggiungere il quantitativo calorico stabilito: dalle calorie totali si sottraggono quelle di derivazione proteica e glucidica, ottenendo le calorie che devono derivare dai grassi; questo numero, diviso per 9, fornisce la quantità di grassi da assumere.

Ad esempio, se volessi instaurare un deficit di 500 kcal su una dieta con un mantenimento di 2500 kcal, con un apporto di 150 g di proteine (600 kcal) e 50 di carboidrati (200 kcal), dovrò sommare questi due (800 kcal) e sottrarli a 2000 kcal. Il risultato (1200 kcal) dovrà essere diviso per 9, ed ecco che per ottenere un deficit di 500 kcal, cioè 2000 kcal totali, risulterà un apporto di grassi di circa 130 g/die.

Applicazioni: la dieta chetogenica tradizionale e le varianti modificate

Per quanto la teoria alla base della dieta chetogenica sia entusiasmante in termini di dimagrimento, questa dieta non si adatta bene a tutti i contesti. Ecco perché esistono delle opportune variazioni alla dieta chetogenica che tengono conto soprattutto dell’attività fisica, dal momento che – specie per alcuni tipi di sforzo fisico – avere riserve di carboidrati non completamente ‘scariche’ è un fattore non di poca importanza.

Qui di seguito illustro le varie applicazioni della dieta chetogenica, che sono state definite soprattutto da Lyle McDonald nel classico testo del 1998 the Ketogenic Diet.

1. Dieta chetogenica standard (SKD)

La dieta chetogenica standard (SKD) non è altro che quella descritta finora: la dieta chetogenica nella sua forma originale. Come è possibile però ottenere i benefici di questo modello alimentare senza il rischio che venga abbandonato a pochi giorni dal suo inizio? Anche se qualsiasi programma nutrizionale deve essere associato ad un qualche intervento dal punto di vista dell’esercizio fisico, la SKD è intesa per persone poco attive, il cui organismo non avrebbe affatto bisogno di glucidi. Ricordo che per attività a bassa intensità e fino al 60-65% della frequenza cardiaca massima il substrato energetico preferenzialmente utilizzato può essere (anche se non per forza) rappresentato dai grassi.

D’altro canto però, la SKD sarebbe poco sostenibile se non ci fosse neppure un momento in cui interrompere la monotonia che qualsiasi dieta, dopo un po’, tende a creare: l’impostazione di una SKD potrebbe dunque basarsi sul seguire una chetogenica pura in cui viene introdotto, di tanto in tanto, un pasto libero.

Anche se l’organismo non viene impegnato in sforzi prettamente glicolitici (che consumano carboidrati), se sottoposto a restrizioni di carboidrati prolungate si trova comunque in uno stato di parziale deplezione delle riserve di glicogeno muscolare.

In una dieta chetogenica il glicogeno nei muscoli può infatti scendere fino a concentrazioni di 70 mmol/kg di tessuto muscolare, a fronte delle normali 90-100 mmol.

Un pasto contenente circa 150g di carboidrati è sufficiente a ripristinare questi valori, anche se bisognerebbe indagare su quanti dei carboidrati ingeriti sarebbero davvero indirizzati verso il tessuto muscolare senza l’ausilio dell’esercizio fisico (che modifica il partizionamento di calorie e glucidi a favore del tessuto muscolare).

Questa modifica con l’introduzione sporadica di un pasto libero-glucidico in realtà rende la dieta chetogenica non più “standard” a tutti gli effetti (cioè, senza alcuna interruzione), e rispetta un principio che trova la sua massima espressione con quella che viene chiamata  dieta chetogenica ciclica, approfondita qui di seguito.

2. Dieta chetogenica ciclica (CKD)

La dieta chetogenica ciclica (CKD, cyclical ketogenic diet) è praticamente una SKD che include una cosiddetta ricarica di carboidrati (carb load): un intervallo di tempo più o meno lungo (al massimo 48 ore) in cui vengono assunte quantità più o meno consistenti di carboidrati.

Ebbene, la durata, l’entità e la frequenza della ricarica dipendono da fattori prettamente individuali e soggettivi di cui bisogna tener conto:

  • Percentuale di grasso corporeo: più è alta la percentuale, meno intensa, meno duratura e (facoltativamente) meno frequente dovrà essere la ricarica;
  • Livello di deplezione di glicogeno: più glicogeno è presente nei muscoli, meno carboidrati e meno tempo occorreranno per un ripristino completo;
  • Obbiettivo di ripristino di glicogeno: in un contesto dietetico di dimagrimento, meno intensa e meno duratura sarà la ricarica; per atleti in vista di gare per cui è utile (o necessario) avere livelli di glicogeno muscolare supercompensati, la ricarica sarà più intensa e più duratura.

Ma a cosa equivalgono le espressioni “più o meno intensa”, “più o meno duratura” e “più o meno frequente”? Molto difficile rispondere per dare dei risvolti veramente pratici, ma cerchiamo in qualche modo di cavarne le gambe. Per quanto riguarda intensità e durata, basti sapere che, presupponendo scorte completamente esaurite (circa 20-30 mmol/kg di tessuto muscolare), il glicogeno muscolare torna a livelli normali in 24 h con un’assunzione di carboidrati di circa 8-10 g/kg LBM; estendendo la ricarica oltre, si può arrivare alla supercompensazione delle scorte di glicogeno fino a 150-160 millimoli in 36 ore o 175 (o più) mmol/kg in 48 ore di carico di carboidrati. Per ricariche molto brevi si può pensare al fatto che circa 40-50 mmol/kg sono risintetizzati in 6 h in cui vengono assunti circa 3 g di carboidrati per chilogrammo di massa magra (in tutto).

Per quanto concerne la frequenza, qui entrano in gioco oltre che fattori fisiologici, anche fattori psicologici e sociali. Una persona con molto grasso da smaltire potrebbe non aver bisogno di ricaricare ogni settimana, ma ad esempio ogni due (oppure non averne proprio). La correlazione tra grasso corporeo e deplezione di glicogeno è dovuta al fatto che nei soggetti molto magri il corpo tenta di resistere all’ulteriore perdita di grasso, ricavando più energia dal glicogeno muscolare, cosa che non accade nelle persone con percentuale di grasso maggiore.

Comunque, il “bisogno” a livello mentale di interrompere in qualche modo la dieta può richiedere la necessità di inserire una ricarica ogni settimana (cosa che si incastra abbastanza bene, tra l’altro, alle ‘occasioni sociali’).

In ogni caso, il consiglio è quello di procedere un po’ per prove ed errori, cosa molto fattibile nelle diete cicliche. Questa caratteristica fa sì che siano molto indicate per la preparazione fisica ad eventi particolari in cui è necessario avere un ottimo compromesso tra massimo livello di glicogeno muscolare e minimo livello di grasso corporeo: c’è la possibilità di provare molto tempo prima la migliore strategia per la ricarica finale.

La cosa ovviamente non è facile, perché la linea che separa un apporto di carboidrati ottimale da un apporto eccessivo è veramente sottile e richiede, da parte di chi pratica diete di questo tipo, grande conoscenza dei segnali del proprio corpo. Spesso infatti si parla di aspetto “puffy” (il sentirsi e vedersi gonfi e goffi), o di una sensazione di pizzicore o solletico nelle stesse zone in cui generalmente si accumula grasso più facilmente, come segnali per interrompere la ricarica di carboidrati.

A complicare il tutto, inoltre, ci sono altri fattori che possono influire in modo determinante, come l’assunzione di più o meno sodio, acqua, grassi, la composizione di questi ultimi e tanti altri. Ad ogni modo, ‘impratichirsi’ provando diete di tipo ciclico potrebbe essere un ottimo tirocinio per conoscere meglio il proprio corpo, fattore fondamentale e spesso trascurato per raggiungere uno stato ottimale di salute e di forma fisica.

3. Dieta chetogenica mirata (TKD)

La dieta chetogenica mirata (TKD, targeted ketogenic diet) è una SKD in cui i carboidrati vengono assunti generalmente nel peri-workout, cioè nel periodo temporale che circonda l’allenamento. Lyle McDonald, coluì che l’ha definita nel dettaglio, suggerisce l’assunzione glucidica preferenzialmente nel pre-workout (cioè prima dell’allenamento) in modo da essere smaltiti rapidamente, e dunque permettere di ripristinare la chetosi il prima possibile.

Su quest’ultimo punto avrei da ridire: l’allenamento comunque fa in modo che la maggior parte dei carboidrati venga stoccata nel tessuto muscolare, una minima parte nel fegato. Poiché è il fegato il vero controllore della chetosi (se il glicogeno epatico è alto viene soppressa), un’assunzione di carboidrati nelle giuste dosi e del giusto tipo (cioè non fruttosio, perché viene captato primariamente dal fegato) dopo l’allenamento può essere parimenti appropriata. A conferma di questo discorso, in realtà lo stesso autore sostiene che la distribuzione dei carboidrati in qualsiasi fase del peri-workout può essere accettabile.

Per quanto riguarda invece le quantità di carboidrati da assumere nella finestra temporale, l’autore da sia delle indicazioni più generiche che più specifiche, per i più pignoli. L’indicazione generica è quella di assumere tra 25 e 50 g di carboidrati circa mezz’ora prima dell’allenamento, potendo scegliere tra integratori glucidici liquidi (maltodestrine, sport drink, ciclodestrine ecc), oppure cibo solido (pane, barrette energetiche, dolciumi). Soprattutto se le quantità sono particolarmente elevate, suggerisce di distribuirle tra mezz’ora, l’immediato pre-workout e l’intra-workout.

Ma esiste la possibilità di distribuirne anche una parte post-workout, che McDonald suggerisce per una quantità di altri ulteriori 25-50 g. A questo punto è possibile capire che una TKD potrebbe consentire anche fino a 100 g di carboidrati nel peri-workout se gli allenamenti sono molto intensi e/o prolungati (cioè, molto glicogeno-depletanti), ma il metodo generico potrebbe non soddisfare le esigenze di chi vuole stimare con la massima precisione il livello di deplezione del glicogeno.

Per i più precisi, la quantità di carboidrati assunta potrebbe essere fatta corrispondere all’incirca a quella di glucosio (glicogeno) utilizzata durante l’attività. Per calcolare il consumo di glucosio utilizzato, la stima si basa sul presupposto che il glicogeno muscolare sia presente, per chi pratica attività fisica, ad una concentrazione di circa 120 mmol/kg per un totale di circa 220-250 g.

Una volta calcolato il glicogeno consumato in termini di concentrazione, dunque, facendo la proporzione su quello totale se ne potrebbe stimare il consumo. Tutto questo però è valido ammesso che tutti i muscoli del corpo siano stati altamente coinvolti nell’attività fisica, e spesso potrebbe non essere così. Il meglio che si può fare è stimare la metà del consumo di glucosio per allenamenti che coinvolgano prevalentemente la parte bassa o la parte alta del corpo (ciclismo confrontato all’allenamento della parte alta con i pesi).

Riferimenti essenziali:

 

Parte 1Parte 2

  • Vincenzo Tortora

    Laureato come Dietista, docente e formatore per Nutrizionisti, Dietisti e Personal Trainer, consulente per attività operanti nel settore del Fitness. Sempre alla ricerca di strategie e soluzioni il più possibile praticabili e sostenibili per l’amatore e l’appassionato, sostiene un approccio mirato e concreto, dritto al punto. Su questa direzione gestisce i progetti della realtà “Oukside”.

2 risposte

  1. Buongiorno, una possibile spiegazione al mantenimento delle prestazioni nel cross-fit o nel bodybuilding nonostante si tratti di sforzi con fasi prettamente lattacide mi era stato detto che se il volume di allenamento o gara non è particolarmente ampio, le riserve di glicogeno comunque presenti potrebbero esser sufficienti al mantenimento delle prestazioni. Riguardo invece gli sforzi aerobici come il ciclismo dove si sommano variazioni dell’intensità importanti (quando fanno tratti in salita ad esempio) e volumi di allenamento o gara lunghi, in questo contesto ci potrebbe essere una maggiore deplezione delle riserve di glicogeno con conseguente calo delle prestazioni? Grazie mille

    1. ciao Mirko, si era la mia risposta precedente che purtroppo è stata cancellata per un errore del webmaster. Anzi, se te la sei salvata te la chiedo così la posso incollare.

      Circa la performance nel contesto aerobico a intensità incostante, credo sia quello dove è più evidente che la chetogenica può compromettere la performance.

      Il punto è che nell’endurance prolungata la chetogenica potrebbe anche andare, specie se un atleta è adattato da mesi, nel caso l’intensità non raggiunga picchi elevati e si mantenga nel range moderato (per intenderci, <80% VO2max indicativamente).

      Il problema è in quelle discipline aerobiche dove appunto si prevedono anche picchi ad alta intensità (non per forza oltre la soglia anaerobica ma almeno superato il punto di crossover).

      Non è tanto una questione di deplezione di glicogeno perché quello viene depletato anche se la prestazione fosse costante a moderata intensità.

      Se sei keto-adapted, durante lo sforzo aerobico riesci a ossidare molto efficientemente acidi grassi e corpi chetonici e puoi cavartela anche con poco glicogeno.

      Il problema è che l'adattamento chetotico (keto-adaptation) compromette la funzionalità degli enzimi glicolitici (PDH su tutti), quindi il muscolo non riesce a impiegare bene glucosio alle intensità in cui è realisticamente l'unico substrato che può fornire energia.

      Va però considerato che la dieta chetogenica alza la soglia anerobica, e che le differenze di performance potrebbero essere rilevanti perlopiù se uno aspira al massimo risultato agonistico.

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