In questo articolo si intendono chiarire alcuni fraintendimenti e falsi miti che ruotano attorno alla presunta necessità del cardiofrequenzimetro per potersi allenare con criterio sulle macchine cardiovascolari nel contesto fitness e wellness.
Alcuni potrebbero essere portati a credere che senza questo strumento non si possa strutturare un programma cardio o monitorare accuratamente l’intensità. Per quanto l’apparecchio consenta di misurare uno dei vari aspetti dell’intensità, ciò non è vero per vari motivi.
Zone di intensità nelle esercizio cardiovascolare
Uno degli argomenti più spinosi sui miti del cardio è quello delle zone di intensità. A scuola di fitness ci insegnano qualcosa del tipo:
In realtà si tratta di nozioni molto approssimative, estremamente generiche, che molte volte non riflettono la realtà e che quindi non hanno una reale valenza pratica.
Come faccio a sapere se sto “bruciando grassi”?
La relazione tra cardio e dimagrimento, e tutti gli argomenti annessi come cardio in zona lipolitica e cardio a digiuno sono stati affrontati in gran parte nell’articolo Bruciare grassi non significa dimagrire (parte 2). Secondo fisiologia dell’esercizio non c’è relazione tra il dispendio di grassi durante la sessione (né l’intensità) e il dimagrimento, quindi che si enfatizzi il dispendio di grassi durante l’attività fisica non dice niente sulla direzione che si sta prendendo per intaccare il grasso corporeo.
Questo argomento è molto semplicistico, e per chi ha una formazione basata sulla ricerca e sui dati pubblicati è una realtà nota e dimostrata da almeno una ventina d’anni, con più studi pubblicati più recentemente a confermare queste constatazioni.
Quindi riassumendo, se qualcuno sostiene che per dimagrire (o per dimagrire di più) con l’attività fisica bisogna:
– fare aerobica;
– fare aerobica in zona lipolitica;
– fare aerobica per almeno 20 minuti;
– preferibilmente fare aerobica a digiuno;
evidentemente non è molto informato sull’argomento, dato che l’evidenza scientifica sull’uomo e la fisiologia di base dell’esercizio hanno sempre smentito queste ipotesi anche dal punto di vista empirico (si veda ancora l’articolo Bruciare grassi non significa dimagrire).
La cosa è prevedibilmente molto complessa perché esistono troppe variabili diverse dall’intensità che influiscono sull’impiego energetico di grassi e carboidrati durante l’esercizio, quindi non sono certamente solo o prioritariamente i battiti cardiaci (l’intensità) che mi fanno capire se “sto bruciando grassi o carboidrati”, questo è un semplicismo estremo senza alcuna valenza pratica.
Ma anche se di avesse la certezza di bruciare molti grassi durante l’attività, questo non ha alcun reale significato perché come spiego, “bruciare grassi non significa dimagrire”.
Monitoraggio dell’intensità senza cardiofrequenzimetro?
Una domanda lecita è “come fare a monitorare l’intensità senza cardiofrequenzimetro?”. La preoccupazione sarebbe che “se non conosco l’intensità (% HRmax, cioè i battiti) con cui sta affrontando lo sforzo aerobico il soggetto, come faccio a collocarlo nella zona di intensità più adatta per i suoi obiettivi?”.
In realtà l’uso del cardiofrequenzimetro, e quindi il monitoraggio del battito, non è così essenziale. Con questo si intende dire che normalmente una persona che inizia a fare palestra non è dotata di cardiofrequenzimetro, ed è improbabile che una palestra ne dia uno in dotazione a chiunque si iscriva.
Ma in tal caso il “problema” è facilmente risolvibile con la scala RPE (o scala di Borg), che può essere usata anche per chi pratica cardio per scopi ricreativi o di fitness anche come potenziale sostituzione al cardiofrequenzimetro.
Scala RPE
La scala RPE (o scala di Borg) è un metodo introdotto negli anni ’70 dallo scienziato svedese Gunnar Borg per monitorare l’intensità dell’esercizio (in origine solo) cardiovascolare, in abbinamento o a sostituzione del cardiofrequenzimetro.
Questa scala prevede dei punteggi, in origine da 6 a 20 (poi rivisitata da 1 a 10), i cui valori corrispondono al grado di fatica. Ad esempio se durante il cardio riporto che lo sforzo è “abbastanza duro”, questo corrisponde all’incirca a un punteggio di 13 sulla scala RPE. La cosa interessante è che i punteggi della scala sono stati poi associati a dei livelli di intensità effettiva, come percentuale del VO2max o del HRmax (1).
La scala RPE applicata all’esercizio cardiovascolare è molto utile perché ci permette di capire visivamente e empiricamente se la persona si sta allenando a grandi linee nella zona che vogliamo prescrivergli. Generalmente è improbabile che la persona media voglia o debba allenarsi nelle zone alte (anaerobiche), quindi la scelta che rimane è tra la bassa e la moderata intensità, zone sicuramente più gestibili, anche perché non rischiano di giungere alla soglia anaerobica.
Il secondo punto per cui il monitoraggio dell’intensità (come % HRmax) non è essenziale, è che indipendentemente che l’obiettivo sia migliorare la capacità cardiovascolare o mirare al dimagrimento, la sola scala di Borg va benissimo.
– Capacità cardiovascolare: per questo scopo va bene, perché una persona decondizionata ottiene comunque degli adattamenti cardiovascolari purché l’intensità sia sufficientemente alta per le sue capacità, e il “sufficientemente alta” lo si capisce con la scala RPE valutando visivamente le reazioni della persona e i report sulle percezioni da parte di un tecnico. Detta semplicemente, basta che non cammini a ritmo blando e che si stabilisca ad un punteggio tra 11 e 12 sulla scala RPE per 30-60 min in base al grado di allenamento: se una persona è decondizionata o non allenata, questa modalità è più che sufficiente per migliorare gli adattamenti cardiovascolari.
– Dimagrimento: per questo scopo non è certo l’aerobica in zona lipolitica che fa dimagrire, come se allenarsi al di sotto o al di sopra di questi range per assurdo non producesse un alcun effetto o semplicemente sia meno efficace per questi scopi (purtroppo è questo il messaggio che parte da molte scuole di fitness). Inoltre, la zona lipolitica è molto bassa in un soggetto decondizionato, quindi in genere un leggero jogging, o forse una camminata veloce o in salita (dipende anche se la persona è sedentaria oppure è attiva nella vita quotidiana), potrebbero portare facilmente la persona neofita in zona lipolitica. Una larga approssimazione delle linee guida sopra esposte è che la zona lipolitica normalmente indicata è in realtà propria degli atleti di endurance (cioè molto allenati), mentre nel soggetto medio è collocata molto più in basso (2,3)…ma in palestra si parla di solito di soggetto medio o addirittura sedentario, e non di atleta di endurance.
Come capire il metabolismo predominante senza cardiofrequenzimetro?
Un’altra domanda lecita se non si è in possesso del cardiofrequenzimetro è “come fai a sapere se la persona si sta allenando sfruttando il metabolismo aerobico?”.
In questo caso non occorrerebbe neppure usare la scala RPE: se la persona è capace di mantenere quel livello di sforzo protratto nel tempo e non appare esausta, sicuramente non sta eseguendo uno sforzo anaerobico, quindi andando per esclusione si trova nelle zone aerobiche dell’intensità. La scala RPE fa il resto, permettendo di capire al professionista il livello di difficoltà sulla base dei report e dell’osservazione, e questo basta per individuare la giusta intensità percepita.
Se la persona entrasse nelle zone anaerobiche dell’intensità basterebbero alcune sue semplici reazioni per farcelo capire chiaramente, dato che lo sforzo anaerobico è molto tassante (e si vede) e non può essere mantenuto per neanche un minuto da una persona non allenata. Dati in letteratura documentano infatti che non solo la percezione dello sforzo è proporzionale al lattato ematico (e quindi all’acidità prodotta), ma la soglia anaerobica si colloca ad un punteggio tra 13 e 15 sulla scala RPE, uno sforzo tra “duro” e “abbastanza duro” (4): se la persona fornisce questi report durante l’esercizio significa che si trova in prossimità dell’anaerobiosi.
Per i meno tecnici, la produzione di lattato indica l’affidamento al metabolismo dei carboidrati, e maggiore è l’intensità maggiori saranno l’affidamento a questo substrato energetico e la fatica percepita. Se voglio mantenermi in zone di intensità più basse questo è facilmente individuabile, perché si riflette in una minore produzione di acidità (cioè di ioni idrogeno, H+) e quindi una minore percezione della fatica.
Quindi usare il cardiofrequenzimetro non ha senso?
Questa sarebbe la conclusione dicotomica leggendo le righe sopra, ma non si intende dire questo. Il cardiofrequenzimetro è uno strumento che ci permette di monitorare un parametro nelle attività cardiovascolari, ovvero l’intensità, che in ambito fitness riconduciamo alla percentuale della frequenza cardiaca massima (% HRmax) sulla base dei battiti rilevati (lasciamo perdere la %VO2max usata nelle ricerche, che in palestra non è monitorabile). Quindi in base al livello e agli obiettivi della persona il suo utilizzo può essere più o meno importante, il punto è che nella maggioranza dei casi per la persona media nel contesto fitness non è essenziale affatto.
– se la persona intende usare prioritariamente l’aerobica come mezzo per ridurre il grasso corporeo (cioè una buona parte delle persone in palestra) allora l’uso del cardiofrequenzimetro può essere superfluo, perché – secondo quanto stabilito nella ricerca – ciò che favorisce la perdita di grasso è il deficit calorico e non l’esercizio di per sé (5), e l’esercizio aerobico di diverse intensità produce simili perdite di grasso sul lungo periodo. Quindi 40-60 minuti di aerobica sostenuta favoriscono il dimagrimento anche solo aggiustando l’intensità tramite la scala RPE (sforzo percepito), perché la zona lipolitica non è influente sulla perdita di grasso. In questo caso l’uso combinato di intensità percepita (RPE) e durata della sessione può bastare per strutturare un programma in maniera produttiva e razionale per la persona media. Ad ogni modo per i più pignoli, un punteggio sulla scala RPE tra 11 e 12, tra “leggero” e poco di più, indica approssimativamente la propria zona lipolitica (per quello che può servire).
– se la persona intende usare l’aerobica anche o prioritariamente per migliorare la capacità cardiovascolare generale, anche in questo caso il monitoraggio dell’intensità con il cardiofrequenzimetro può essere superflua dato che è sufficiente usare la combinazione tra intensità percepita (RPE) e durata per organizzare un allenamento strutturato. Anche in assenza di cardiofrequenzimetro è possibile applicare con precisione il principio del sovraccarico progressivo (che non è un concetto applicabile solo nel resistance training) in maniera da aumentare la difficoltà manipolando il carico esterno (la difficoltà imposta dal macchinario) e il volume progredendo con il programma.
– se la persona ha come obiettivo prioritario la performance (un atleta di endurance o aspirante tale), allora può essere importante monitorare precisamente l’intensità dell’esercizio, perché qui entra in gioco una programmazione molto più mirata e un approccio agonistico, dove tenere sotto controllo tutte le variabili con la massima precisione aiuta l’atleta a superare il proprio limite ottenendo il massimo degli adattamenti. Ok, ma si parla di atleti, non di persona media, cioè il 90% degli utenti che frequentano le palestre e che affrontano il cardio a scopo ricreativo per stare bene.
% HRmax vs Scala RPE: chi prevale?
L’aspetto paradossale della “teoria” delle zone di intensità, è che sembrerebbe che l’intensità monitorata (%HRmax) abbia maggiore importanza dello sforzo percepito (RPE), e che quindi il soggetto debba adattarsi ad una presunta zona di intensità ideale indipendentemente dalla sostenibilità.
In realtà la scala di Borg è stata proposta anche come strumento per chi pratica l’attività cardio a scopo ricreativo a sostituzione della %HRmax (1,6)…e l’utente medio in palestra la pratica proprio a scopo ricreativo, per stare bene, non per diventare un agonista di ultra-endurance.
Per riassumere, la scala RPE è uno strumento dall’enorme valenza pratica per l’utente medio, perché permette anche di individuare a grandi linee l’intensità effettiva (% HRmax) proprio in base al grado di fatica percepita dalla persona sotto sforzo.
Questo significa che la scala RPE è stata pensata potenzialmente anche come totale sostituzione al cardiofrequenzimetro per monitorare l’intensità per gli utenti in palestra (1,6), e questo lo confermano anche dei testi di fitness firmati da ricercatori del settore (1). L’idea sbagliata in partenza è credere che senza cardiofrequenzimetro non si possa strutturare un buon programma cardiovascolare o correre chissà quale “rischio”.
Non solo, ma la scala RPE ha motivo di prevalere sulla %HRmax, perché anche se si volesse collocare la persona in un’ipotetica zona lipolitica, se la persona percepisce troppa fatica a questi livelli certamente non la si può obbligare a mantenere quel grado di intensità. Il carico esterno (la macchina) deve adattarsi al carico interno (l’intensità percepita), e non il contrario.
Riferimenti:
- Paoli A, Neri M. Principi di metodologia del fitness. Elika, 2010. p. 131-148.
- Melanson LM et al. Exercise improves fat metabolism in muscle but does not increase 24-h fat oxidation. Exerc Sport Sci Rev. 2009 Apr;37(2):93-101.
- Achten J, Jeukendrup AE. Optimizing fat oxidation through exercise and diet. Nutrition. 2004 Jul-Aug;20(7-8):716-27.3.
- Paoli A, Neri M. Principi di metodologia del fitness. Elika, 2010. p. 131-148.
- Weltman A. The blood lactate response to exercise. Human Kinetics, 1995. University of Michigan.
- Kravitz L. Calorie Burning: It’s time to think “Outside the Box”. 7 Programs that Burn a lot of Calories. IDEA Fitness Journal. 2009 6(4), 32-38.