Analisi dell’indice glicemico (parte 2): i principali miti su indice e carico glicemico

Dopo aver approfondito nella parte 1 le fondamentali basi teoriche e le limitazioni che caratterizzano l’indice glicemico e il carico glicemico, in questa ampia sezione verranno elencati i principali falsi miti spesso supportati in primis dal mondo accademico.

L’indice glicemico è la misura della rapidità di assimilazione dei carboidrati

rapiditaIl primo fondamentale e grave equivoco legato all’interpretazione dell’IG è quello di ritenere che questo parametro indichi la rapidità di assimilazione (e eventualmente di digestione) dei carboidrati assunti. Secondo una comune definizione, i cibi a basso indice glicemico, subendo una lenta digestione, permetterebbero un ingresso dei carboidrati nel sangue lento e graduale. Viceversa i cibi ad alto indice glicemico subirebbero una digestione e un assorbimento molto rapido, incrementando la glicemia in maniera repentina.

Pur essendo l’interpretazione dominante espressa anche da molti ricercatori, l’IG per definizione non indica direttamente la rapidità di accesso dei carboidrati nel sangue, ma piuttosto la generale capacità di incrementare la glicemia – o l’area sotto la curva (AUC) plasmatica di concentrazione di glucosio – nell’arco di 2 ore dalla loro ingestione (1). Questo indipendentemente dall’effettiva rapidità con cui i carboidrati vengono assorbiti. È da notare infatti che gli scienziati che inventarono l’indice glicemico e lo presentarono nel 1981, non parlavano di rapidità di assimilazione (1).

In realtà l’IG viene impropriamente scambiato come sinonimo della cinetica del glucosio, cioè la velocità di comparsa del glucosio nella circolazione sistemica, ma i due concetti sono ampiamente differenti e scindibili (2). Due cibi dal IG molto diverso possono presentare un simile tasso di ingresso del glucosio nel sangue (2), viceversa alimenti dal simile IG possono subire una velocità di digestione differente (3). Una lenta digestione non si riflette per forza in una bassa risposta glicemica (4), e un rapido assorbimento non per forza si riflette in una risposta glicemica proporzionalmente alta (2,5). In alcuni casi l’IG può essere più basso a causa di una risposta insulinica più rapida e elevata, e questo rapido aumento insulinemico abbassa inizialmente la glicemia cosicché il cibo avrà un basso impatto glicemico complessivo (2).

Sebbene in molti casi è possibile che la rapidità di digestione e/o assorbimento dei carboidrati possa influenzare fortemente l’IG, esistono altri fattori complessi che ne determinano il valore indipendentemente dalla velocità con cui essi vengono assorbiti (2-4). La conclusione è che l’indice glicemico per definizione non misura la velocità in cui incrementa la glicemia in seguito all’ingestione di un dato cibo, ma indica semplicemente l’entità del suo aumento, in condizioni strettamente sperimentali e non nel mondo reale.

Un cibo ad alto IG aumenta la glicemia più di un cibo a basso IG

Un comune errore nell’interpretare l’IG è quello di ritenere che un cibo ad alto IG per caratteristica aumenta la glicemia più di un cibo a basso IG. Questo semplice malinteso è dovuto al fatto che si valuta la questione in termini assoluti (nonché strettamente sperimentali), e non relativi. Si considera cioè solo l’IG piuttosto che il carico glicemico (CG), cioè il parametro che è più correttamente in grado di stimare gli incrementi della glicemia in seguito all’assunzione di un cibo glucidico. Come spiegato nella prima parte, il CG spiega che l’aumento post-prandiale stimato della glicemia non dipende dall’indice glicemico, ma piuttosto dal rapporto tra quest’ultimo e la relativa quantità di carboidrati assunti (6).

Un cibo ad altissimo IG può sortire una risposta glicemica molto bassa se apporta basse quantità di carboidrati (basso CG), al contrario di un cibo a basso-medio IG che apporta quantità di carboidrati relativamente alte (alto CG) (7). Di conseguenza l’IG non indica in nessun modo l’entità dell’aumento della glicemia indotto dal cibo glucidico, ma lo indica solo in condizioni sperimentali, cioè a parità di carboidrati netti assunti nelle condizioni standardizzate ‘da laboratorio’ descritte in precedenza, nello stesso soggetto (1). Tuttavia nel mondo reale spesso le porzioni comuni di molti cibi ad alto IG sono tali da non apportare un CG molto alto, al contrario le porzioni realistiche di molti cibi a IG medio-basso hanno spesso un alto CG.

Un esempio emblematico è dato dal paragone tra 5 g di glucosio e un normale piatto di pasta da 100 g. Il glucosio ha un IG di 100 mentre la pasta attorno a 55, tuttavia 5 g di glucosio hanno un CG di 5, mentre 100 g di pasta (70 g di carboidrati) hanno un CG di 38.5. In altre parole, un normale piatto di pasta provoca un aumento stimato della glicemia quasi 8 volte maggiore di 5 g di glucosio nonostante abbia un IG della metà.

L’aspetto paradossale è che un carico glicemico altissimo (ben superiore a 20) non viene mai riconosciuto nei riguardi dei cibi comunemente accettati dalla tradizione in porzioni giudicate “normali”, perché l’attenzione ricade sul solo IG, che per caratteristica non è capace di misurare l’innalzamento della glicemia post-prandiale. In conclusione, una fonte di carboidrati a basso o moderato IG può provocare un aumento della glicemia enormemente maggiore di una fonte di carboidrati a IG altissimo (7).

Un carico glicemico elevato (≥20) è causa di effetti avversi

Una grande controversia sul carico glicemico è legata alla sua scala di valori, introdotta da un noto testo pubblicato dal gruppo di ricerca di Brand-Miller et al. nel 2003 (8). Come detto in precedenza, se dal calcolo del carico glicemico risulta un punteggio di 20 o superiore esso viene definito ‘alto’. Tuttavia un alto carico glicemico non deve essere relazionato ad ipotetici effetti avversi. Se fosse vero che si deve evitare un CG superiore al punteggio di 19 per prevenire presunte elevazioni eccessive della glicemia e dell’insulinemia, le porzioni di molti cibi comuni – anche ad indice glicemico medio o basso – dovrebbero essere assunte in quantità minuscole e spesso improbabili.

Ad esempio, per mantenere un CG inferiore a 20, il riso bianco (secco) dovrebbe essere assunto non oltre i 30 g, la pasta (secca) e il pane non oltre i 40 g, i corn flakes non oltre i 25 g, le patate e i fagioli (secchi) non oltre i 100 g (9). Queste porzioni dovrebbero essere inoltre assunte dissociate da altri carboidrati, perché altrimenti risulterebbe un ulteriore aumento del CG (7). Si può capire che se interpretata letteralmente la scala di valori del CG da delle indicazioni irrealistiche e fuorvianti per individuare delle presunte quantità limite al fine di prevenire un “eccesso” di carboidrati nel pasto.

Questo può essere spiegato in parte dal fatto che in realtà l’aumento della glicemia non è strettamente proporzionale alla quantità dell’alimento assunta – o al suo CG stimato – in maniera lineare: in maggiori quantità l’alimento viene assunto, minore è in proporzione l’aumento della glicemia (7). Quello che inoltre è poco noto è che il calcolo del carico glicemico riportato nella prima parte (e la relativa scala di valori) è un metodo indiretto, o una semplice stima molto grossolana e indicativa. Per misurare il vero valore del CG devono essere usati complessi e costosi metodi diretti in laboratorio basati sulla risposta soggettiva (vedi le variazioni inter-individuali nella prima parte), e per questo inutilizzabili nel mondo reale (7).

Il CG della dieta è più realisticamente valutabile sul lungo termine (24 ore o giorni) e non sul singolo pasto (7,10). Proprio per questo al fine di ridurre il CG della dieta non è realistico evitare le singole porzioni ad alto CG, ma è più facile farlo semplicemente riducendo l’apporto totale di carboidrati nella dieta (10). Ad esempio, paragonando una dieta basata su un apporto di carboidrati moderato ma solo ad alto IG, e una dieta con un alto apporto di carboidrati ma solo a IG basso/moderato, quest’ultima potrebbe apportare facilmente un maggiore CG complessivo pur evitando alimenti ad alto IG.

Un cibo ad alto IG e CG aumenta l’insulinemia più di un cibo a basso IG e CG

Un altro comune errore è quello di credere che l’IG e il CG siano dei predittori della risposta insulinica. Sebbene di norma possa esserci una forte relazione tra l’aumento della glicemia e quello dell’insulinemia, in realtà esistono molti casi in cui la risposta insulinica risulta sproporzionata rispetto alla risposta glicemica (11).

Queste differenze sono state riconosciute dal parametro relativamente più recente chiamato indice insulinico (II, insulin index), il quale misura l’elevazione dell’insulinemia indipendentemente dalla glicemia in condizioni sperimentali e standardizzate, tra cui la parità di apporto calorico (239 kcal) (11). Si può capire che l’indice glicemico non può essere usato per valutare direttamente la capacità intrinseca dei carboidrati di elevare l’insulinemia, ma solo la loro capacità di elevare la glicemia (7).

L’indice insulinico è sproporzionato rispetto all’indice glicemico in alcune classi di alimenti, come i latticini e molti snack e prodotti da forno. Ne esistono poi altri, come molti cibi proteici puri, che hanno un IG pari a 0 ma un elevato indice insulinico, a volte superiore a cibi ricchi di carboidrati (a parità di calorie totali) (11). Questo a causa del fatto che i cibi proteici, come la carne e il pesce, stimolano la risposta insulinica indipendentemente dall’elevazione glicemica per via del noto effetto insulinogenico di alcuni aminoacidi (12).

Più di recente è stato introdotto il concetto di carico insulinico (CI o IL da insulin load) per riconoscere – come era stato in precedenza per il carico glicemico – i valori relativi e non più assoluti circa la capacità di un cibo di elevare l’insulinemia (13). Questo significa che un alimento ad alto II può stimolare una bassa risposta insulinica se assunto in minime quantità (basso CI), in paragone ad un alimento a basso-medio II assunto però in quantità molto alte (alto CI). Anche per il CI è stato proposto un calcolo per ricavare una stima dell’aumento insulinemico, ovvero indice insulinico x calorie apportate dalla porzione / 100 (14). Questo calcolo tuttavia non sembra poter essere sfruttabile data l’assenza di una scala di valori di riferimento. Ma anche se questa scala esistesse, rimarrebbero le stesse limitazioni trattate per la scala di valori del carico glicemico.

Associare grassi e proteine ai carboidrati “tiene a bada” l’insulina

insulin-indexUn altro falso mito associato ai pasti misti è ancora legato all’errore grossolano nel considerare l’esistenza di una relazione stretta tra glicemia e insulinemia, o in altri termini, che l’indice e il carico glicemico riescano a predire la risposta insulinemica. Effettivamente associare i carboidrati a proteine e/o grassi riduce la risposta glicemica e quindi il loro indice e il carico glicemico (7,13,15). Sulla base di questo principio viene comunemente proposto che associare i carboidrati a grassi e proteine, riducendo la risposta glicemica, sia in grado di “tenere a bada” l’insulina prevenendo presunti effetti metabolici avversi.

In realtà la risposta insulinica è notoriamente maggiore della risposta glicemica con i pasti misti: è risaputo che mescolare i carboidrati con le proteine causa un ulteriore aumento dell’insulinemia rispetto alla stessa porzione di soli carboidrati isolati (13,15). Anche i grassi alimentari, perlomeno saturi, possono aumentare ulteriormente la risposta insulinica agli alimenti stimolanti l’insulina (11).

In altri termini i pasti misti normalmente aumentano l’indice e il carico insulinico pur riducendo nel contempo l’indice e il carico glicemico (13,15). Questo probabilmente ad eccezione della sola associazione con fonti di grassi insaturi (MUFA e PUFA), che sembrano avere un effetto neutro o molto blando sulla risposta insulinica provocata da carboidrati e/o proteine (16,17). Dato che anche molti snack e prodotti da forno hanno un indice insulinico maggiore del loro indice glicemico (11), è presumibile che alcuni grassi usati nei cibi industriali (forse idrogenati o trans, ma anche semplicemente saturi) aumentino la risposta insulinica.

Per quanto non abbia una reale utilità pratica, se il fine fosse ipoteticamente quello di contenere l’aumento dell’insulinemia per qualche motivo, si dovrebbero assumere i carboidrati isolati evitando di associarli ad altri nutrienti che ne aumentano la secrezione: l’esatto opposto di quello che si suggerisce solitamente. In realtà l’utilità dei pasti misti sarebbe quella di controllare la glicemia in soggetti con alterazioni del metabolismo del glucosio (abbassando il CG), anche se il carico insulinico (CI) in questo modo è maggiore.

I carboidrati complessi alzano meno la glicemia dei carboidrati semplici

complessiPrima che l’indice glicemico venisse introdotto negli anni ‘80 prevaleva la classificazione di carboidrati semplici e complessi, termini che si riferiscono alla mera struttura chimica del carboidrato. Per definizione, i carboidrati semplici (o zuccheri) hanno una struttura che si compone da una o due molecole di uno zucchero, andando rispettivamente sotto il nome di monosaccaridi o disaccaridi.

I carboidrati complessi sono invece formati da tre o più zuccheri, inglobando le categorie degli oligosaccaridi e dei polisaccaridi. I principali carboidrati semplici sono glucosio, fruttosio, saccarosio, lattosio e galattosio. I carboidrati complessi digeribili per l’uomo invece fanno essenzialmente riferimento all’amido (polisaccaridi), o ad alcuni supplementi glucidici sportivi come le maltodestrine, le ciclodestrine (HBCD) o il Vitargo® (oligosaccaridi).

Nel senso comune i carboidrati semplici vengono associati all’alto indice glicemico, mentre i carboidrati complessi al basso indice glicemico. In realtà questa equazione è totalmente fuorviante, in quanto non esiste alcuna relazione tra la struttura chimica del carboidrato e l’IG. La maggior parte dei comuni carboidrati semplici ha un IG basso: fruttosio, galattosio, lattosio, trealosio, isomaltulosio (Palatinose™), pur essendo semplici hanno un basso IG (18). Il saccarosio, il comune zucchero da cucina, ha un IG solo ‘moderato’ (1). Gli unici zuccheri semplici comuni per definizione ad alto IG sono il glucosio e il maltosio (1), che in natura si trovano in tracce.

I comuni carboidrati complessi invece hanno dimostrato molto spesso un alto IG. Sin da principio le tabelle del IG riportavano che molti amidi presentavano un punteggio tale da superare la soglia del IG ‘moderato’ (≥ 70). Alimenti come il riso, le patate, i corn flakes, le carote cotte e alcuni farinacei, erano stati riconosciuti come alimenti ad alto IG già dal primo studio (1). In seguito si è stabilito che molti altri cibi amidacei di uso comune, come il pane bianco (7), le gallette di riso o di mais, la pasta di riso (19) o di mais (20), o la maggior parte delle qualità di riso (19), abbiano spesso dimostrato un alto IG, ben superiore a quello dello zucchero da cucina. Curiosamente anche alcuni amidi in forma integrale, come il riso, a volte hanno mostrato un alto indice glicemico (19).

Per quanto riguarda invece gli integratori di carboidrati a base di oligosaccaridi come le maltodestrine (21) o il Vitargo® (22), pur essendo di struttura complessa hanno notoriamente un IG molto elevato, analogo (e secondo alcuni superiore) a quello del glucosio (cioè 100).

L’indice glicemico è un indicatore del potere saziante dei cibi

Secondo le ipotesi dominanti, un cibo a basso IG mantiene la glicemia più stabile e sopprime la fame, portando ad assumere spontaneamente meno cibo nei pasti successivi. Al contrario un cibo ad alto IG non permetterebbe di mantenere la glicemia stabile, ma il repentino aumento della glicemia verrebbe seguito da un rapido intervento dell’insulina per abbassarla bruscamente, portando ad attacchi di fame improvvisi. Questa ipotesi molto diffusa si basa su una discutibile interpretazione della vecchia teoria glucostatica (glucostatic theory) di Meyer (1953), secondo cui la fame e il desiderio di cibo sarebbero la conseguenza del declino della glicemia, viceversa la soppressione della fame sarebbe il risultato dell’aumento della glicemia (23).

Al di là del fatto che la stessa teoria glucostatica è oggetto di controversie, in realtà nella letteratura scientifica l’ipotesi sulla relazione diretta tra IG e appetito è fortemente dibattuta, e le evidenze vertono in un’altra direzione. Un importante problema metodologico si riconosce dal fatto che nel mondo reale i cibi vengono assunti perlopiù in associazione (pasti misti), quindi l’IG e il CG dei carboidrati vengono alterati dall’associazione con altri alimenti, rendendo impossibile capire il loro effetto causale sull’appetito (23). Un’altra limitazione di molte ricerche sta nel mancato controllo (equiparazione) dell’introito energetico, delle fibre e della densità energetica dei cibi testati (24), fattori determinanti sulla sazietà e indipendenti dal IG, risultando ancora importanti fattori confondenti.

Importanti indizi provengono dai vecchi studi sull’indice di sazietà (IS o SI, da satiety index), un parametro capace di misurare il potere saziante dei cibi a breve termine (entro 2 ore). Il primo studio sull’indice di sazietà trovò che i fattori che predicevano il potere saziante dei cibi erano la densità energetica, la palatabilità, e il contenuto di proteine, fibre e acqua, ma non l’indice glicemico (25). Ironicamente il cibo più saziante tra i 38 testati era la patata bollita (25), alimento a cui spesso è stato attribuito un alto IG (1,26).

Ma al di là delle evidenze a breve termine, esistono molti studi controllati a lungo termine che non hanno trovato una relazione tra la risposta glicemica e la sazietà (27-30). In uno degli studi meglio controllati in cui sono stati equiparati il contenuto dei macronutrienti e la palatabilità, l’IG non era relazionato all’appetito o all’introito di cibo (31).

È possibile che esista una correlazione (“La correlazione non implica la causalità”) tra basso IG e sazietà perché, ad esempio, molti cibi a basso IG sono anche meno densi di calorie e più ricchi di fibre. Tuttavia ciò non indica una relazione diretta tra l’IG e la sazietà, dato che densità calorica e contenuto di fibre sono di per sé fattori determinati sulla sazietà indipendentemente dall’IG dell’alimento (25). Quando la densità energetica, il contenuto di macronutrienti e di fibre sono stati equiparati tra chi assumeva pasti ad alto o basso CG, in entrambi i casi si osservava infatti un simile effetto sulla riduzione dell’introito calorico spontaneo (32).

Parte 3: effetti sull’ossidazione lipidica e sulle variazioni di grasso

Riferimenti:

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  2. Schenk S et al. Different glycemic indexes of breakfast cereals are not due to glucose entry into blood but to glucose removal by tissue. Am J Clin Nutr. 2003 Oct;78(4):742-8.
  3. Eelderink C et al. The glycemic response does not reflect the in vivo starch digestibility of fiber-rich wheat products in healthy men. J Nutr. 2012 Feb;142(2):258-63.
  4. Eelderink C et al. Slowly and rapidly digestible starch foods can elicit a similar glycemic response because of differential tissue glucose uptake in healthy men. Am J Clin Nutr. 2012 Nov;96(5):1017-24.
  5. Holdsworth CD et al. Absorption of fructose in man. Proc Soc Exp Biol Med. 1965 Jan;118:142-5.
  6. Salmerón J et al. Dietary fiber, glycemic load, and risk of non-insulin-dependent diabetes mellitus in women. JAMA. 1997 Feb 12;277(6):472-7.
  7. Venn BJ, Green TJ. Glycemic index and glycemic load: measurement issues and their effect on diet-disease relationships. Eur J Clin Nutr. 2007 Dec;61 Suppl 1:S122-31.
  8. Brand-Miller J et al. The New Glucose Revolution: Complete Guide to Glycemic Index Values. Marlowe & Company, 2003.
  9. Il carico glicemico risultante dalle grammature segnalate si riferisce a degli esempi indicativi, basati sul IG medio di questi alimenti e la percentuale media di carboidrati al loro interno.
  10. Wolever TM, Mehling C. Long-term effect of varying the source or amount of dietary carbohydrate on postprandial plasma glucose, insulin, triacylglycerol, and free fatty acid concentrations in subjects with impaired glucose tolerance. Am J Clin Nutr. 2003 Mar;77(3):612-21.
  11. Holt SH et al. An insulin index of foods: the insulin demand generated by 1000-kJ portions of common foods. Am J Clin Nutr. 1997 Nov;66(5):1264-76.
  12. Pal S, Ellis V. The acute effects of four protein meals on insulin, glucose, appetite and energy intake in lean men. Br J Nutr. 2010 Oct;104(8):1241-8.
  13. Bao Y et al. Dietary insulin load, dietary insulin index, and colorectal cancer. Cancer Epidemiol Biomarkers Prev. 2010 Dec;19(12):3020-6.
  14. Kent LS et al. Beyond glycemic index: New food insulin index. University of Sydney.
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  16. Joannic JL et al.  How the degree of unsaturation of dietary fatty acids influences the glucose and insulin responses to different carbohydrates in mixed meals. Am J Clin Nutr  1997 May;65(5):1427-33.
  17. Robertson MD et al. Acute effects of meal fatty acid composition on insulin sensitivity in healthy post-menopausal women. Br J Nutr  2002;88(6):635-40.
  18. I riferimenti per l’IG dei relativi carboidrati: fruttosio e lattosio: Yang YX et al. 2006; trealosio: van Can JG, 2012; isomaltulosio: glycemicindex.com; galattosio: Wolever TM, Jenkins DJ., 1986.
  19. Brand-Miller J et al. Rice: a high or low glycemic index food? Am J Clin Nutr 1992; 56: 1034-6.
  20. Per ulteriori approfondimenti consultare il database sull’indice glicemico dei cibi su www.glycemicindex.com gestito dalla University of Sydney, in cui sono presenti dati non pubblicati sui punteggi dell’indice glicemico dei cibi segnalati.
  21. Anderson GH et al. Inverse association between the effect of carbohydrates on blood glucose and subsequent short-term food intake in young men. Am J Clin Nutr. 2002 Nov;76(5):1023-30.
  22. Sito ufficiale del Vitargo® – FAQ – Frequently asked questions (http://www.vitargo.com/faq/)
  23. Niwano Y et al. Is glycemic index of food a feasible predictor of appetite, hunger, and satiety? J Nutr Sci Vitaminol (Tokyo). 2009 Jun;55(3):201-7.
  24. Pi-Sunyer FX.  Glycemic index and disease.  Am J Clin Nutr  2002 Jul;76(1):290S-8S.
  25. Holt SH et al. A satiety index of common foods. Eur J Clin Nutr. 1995 Sep;49(9):675-90.
  26. Soh NL, Brand-Miller J. The glycaemic index of potatoes: the effect of variety, cooking method and maturity. Eur J Clin Nutr. 1999 Apr;53(4):249-54.
  27. Flint A. et al. Associations between postprandial insulin and blood glucose responses, appetite sensations and energy intake in normal weight and overweight individuals: a meta-analysis of test meal studies. Br J Nutr. 2007 Jul;98(1):17-25.
  28. Holt SH et al. Interrelationships among postprandial satiety, glucose and insulin responses and changes in subsequent food intake. Eur J Clin Nutr. 1996 Dec;50(12):788-97.
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  30. Sloth B et al. No difference in body weight decrease between a low-glycemic-index and a high-glycemic-index diet but reduced LDL cholesterol after 10-wk ad libitum intake of the low-glycemic-index diet. Am J Clin Nutr. 2004 Aug;80(2):337-47.
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  32. Krog-Mikkelsen I et al. A low glycemic index diet does not affect postprandial energy metabolism but decreases postprandial insulinemia and increases fullness ratings in healthy women. J Nutr. 2011 Sep;141(9):1679-84.
  • Lorenzo Pansini

    Lorenzo Pansini è natural bodybuilder, formatore, personal trainer e divulgatore scientifico specializzato in nutrizione sportiva (ISSN-SNS) e allenamento per il miglioramento fisico. Con oltre 10 anni di esperienza attiva nella divulgazione scientifica, è stato per anni referente tecnico per l'azienda leader Project inVictus con vari ruoli, e richiesto da altre importanti realtà del settore nazionale. È autore per testi e riviste di settore, come Alan Aragon's Research Review, redatta dal ricercatore e nutrizionista americano Alan Aragon.

2 risposte

  1. Ringrazio, fatelo pure girare. La gente deve sapere perché in giro c’è sempre stata troppa disinformazione su questo argomento, una disinformazione che purtroppo partendo dall’alto non viene percepita come tale. Grazie ancora 🙂

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