Il meal timing, detto altrimenti food timing, è il termine convenzionalmente usato nella ricerca scientifica per riconoscere il concetto di distribuzione delle calorie nell’arco della giornata. Il meal timing è complementare al concetto di meal frequency (frequenza dei pasti), cioè il numero dei pasti organizzati all’interno della giornata, due aspetti ben distinguibili ma intersecabili.
Le ricerche controllate hanno concluso quasi univocamente che, indipendentemente da quanto frequentemente si assume il cibo, a parità di calorie e nutrienti ingeriti il ritmo metabolico e le variazioni di grasso non vengono significativamente influenzati della frequenza dei pasti (1). L’impatto del meal timing è invece meno chiaro, anche se sembra che continui ad essere accettato il vecchio aforisma “Colazione da Re, pranzo da principe e cena da povero”, ad indicare che l’abbondanza calorica debba essere progressivamente ridotta man mano che la giornata prosegue, anche per lo scopo di controllare gli accumuli di grasso. In questo articolo verrà fatta luce su cosa la ricerca ha dimostrato ad oggi sull’impatto causale del meal timing sulla perdita di grasso e le variazioni della composizione corporea.
Significato del termine
Meal (o food) timing significa letteralmente ‘tempistica’ o ‘regolazione dei pasti’ (o ‘del cibo’). Nonostante queste definizioni non vengano sempre usate in questo senso, esse indicano la distribuzione dell’apporto calorico nell’arco della giornata, indipendentemente dagli alimenti o i macronutrienti che apportano tali calorie. La traduzione letterale “tempistica dei pasti” potrebbe fuorviare, poiché in questo caso si farebbe riferimento specifico alla quantità calorica piuttosto che al numero di pasti in sé; il concetto di “distribuzione calorica” potrebbe quindi essere più rappresentativo.
Il meal timing va infatti nettamente dissociato dalla frequenza dei pasti (meal frequency), in quanto due modelli alimentari con lo stesso numero di pasti negli stessi orari possono prevedere una distribuzione calorica completamente differente. Pur considerando che il meal timing potrebbe influire ad un certo modo sulla frequenza dei pasti i due aspetti devono essere distinti.
Il meal timing va dissociato anche dal timing dei macronutrienti (nutrient timing); al di là dell’aspetto calorico, alcune teorie potrebbero riconoscere che sia meglio assumere un determinato macronutriente in una specifica fase della giornata (come la popolare teoria dei carboidrati nelle ore antemeridiane). Due modelli alimentari con un simile meal timing potrebbero caratterizzarsi da un nutrient timing completamente differente o viceversa.
Dato che risulta difficile isolare l’effetto causale del meal timing da altri fattori come la frequenza pasti, il timing dei macronutrienti, il bilancio energetico, le proporzioni dei macronutrienti, la ricerca non ha effettivamente stabilito in maniera chiara e definitiva se esista una distribuzione calorica ideale per mantenere o ridurre più efficacemente il grasso corporeo, o generalmente per migliorare la composizione corporea. Gran parte delle autorità in campo di nutrizione tuttavia supporta il maggiore apporto calorico nella prima parte della giornata.
Colazione da Re, pranzo da principe e cena da povero (?)
L’aforisma “Colazione da Re, pranzo da principe e cena da povero” (“Breakfast like a King, lunch like a prince, and dinner like a pauper”) è stato coniato anni addietro da Adelle Davis, Nutrizionista statunitense scomparsa nel 1975.
Secondo le più comuni ipotesi a supporto di questo pattern, l’uomo dovrebbe assumere il pasto più calorico a colazione in modo che le calorie assunte vengano impiegate durante la giornata. Mentre nelle ore serali l’assunzione di cibo e calorie dovrebbe essere minimizzata, per fare in modo che questo prevenga l’accumulo di grasso causato dalla disponibilità energetica prima del sonno, un periodo in cui il dispendio energetico declina.
Non è noto sulla base di quale evidenza la Davis elaborò la celebre frase, certo è che all’epoca studi ben condotti a lungo termine sul meal timing non erano stati pubblicati. Data la scarsità di ricerche sul tema al tempo non sarebbe stato possibile affermare con tale certezza che assumere gran parte dell’apporto calorico nella prima parte della giornata, e ridurlo nelle ore serali, fosse una scelta dietetica generalmente migliore. Questo tenendo sempre presente che l’opinione di una singola autorità è da ritenere scientificamente inattendibile, specie se confrontata con l’evidenza scientifica.
Al tema del meal timing vanno associati a loro volta i concetti di breakfast skipping (saltare la colazione) e late-night eating o night-time eating (il mangiare tardi e/o abbondantemente la sera), che secondo le comuni posizioni non sarebbero ancora tollerati perché infrangerebbero questo principio cardine della corretta alimentazione. Si può capire che secondo la classica configurazione promossa da gran parte della Scienza della nutrizione e della ricerca, la corretta impostazione del meal timing per garantire il mantenimento o la perdita di peso consisterebbe nell’organizzare i pasti in modo che l’apporto di calorie sia maggiore nella prima parte della giornata e vada riducendosi progressivamente fino alle ore serali. In questo modo, la colazione dovrebbe essere molto abbondante, il pranzo moderato e la cena leggera.
Le evidenze scientifiche controllate
Per verificare se il meal timing influenzi in maniera causale la composizione corporea, è necessario prendere in considerazione gli studi controllati randomizzati (RCT). Il nesso di causalità può essere estrapolato solo con queste modalità di studio, equiparando tutte le variabili tra i gruppi, tra cui fascia di età, stato di salute, livelli di attività, stile di vita, bilancio calorico, frequenza dei pasti, proporzioni dei macronutrienti ecc. L’unica variabile che dovrebbe veramente differire tra i gruppi è quella analizzata, in questo caso la sola distribuzione delle calorie nell’arco della giornata. Inoltre, la durata dello studio dovrebbe essere sufficientemente lunga da poter registrare delle significative variazioni della composizione corporea. La composizione corporea dovrebbe essere monitorata, e questo dovrebbe possibilmente avvenire con metodi di misurazione particolarmente accurati.
Gli studi controllati sulle diete devono equiparare rigorosamente anche l’apporto calorico (le cosiddette diete isocaloriche) per evitare che tra i gruppi analizzati il fattore confondente sia rappresentato da una disparità nelle calorie assunte. Nella maggior parte delle ricerche tuttavia le diete vengono somministrate tramite il self-reporting (auto-monitoraggi0) su diari alimentari, metodo che ha dimostrato di portare ad una stima falsata delle calorie assunte (2,3), rendendo impossibile pareggiarle tra i gruppi e risultando quindi un fattore confondente.
Criteri di inclusione
Il meal timing è stato studiato da diverse ricerche sull’uomo, anche se molte di queste più spesso non sono state organizzate adeguatamente per poter estrapolare l’impatto causale di questa variabile. Molti sono gli studi osservazionali che associano l’assunzione di cibo di sera con l’obesità (4,5), ma ancora questo tipo di analisi non può essere considerato vista l’impossibilità di stabilire un nesso di causalità. Visto che quando le persone mangiano di più la sera tendono ad assumere complessivamente più calorie giornaliere (5), l’assenza di controllo calorico risulta un importante fattore confondente. Dato il coinvolgimento di vasti campioni di soggetti senza un rigoroso controllo delle variabili, questi studi potrebbero riconoscere un’associazione tra obesità e il mangiare di sera semplicemente perché gran parte della fetta di popolazione imputata segue uno stile di vita e di alimentazione meno sano e assume calorie in eccesso (il bias noto come healthy adherer effect). Esistono anche molte ricerche su animali che hanno registrato un maggiore accumulo di peso se alimentati nelle ore “sbagliate” (4), ma anche questi non possono essere usati per trarre conclusioni sull’uomo in quanto modello inattendibile, come confermato dalla ben nota Gerarchia dell’evidenza riportata nell’immagine sopra.
Valutando le ricerche controllate sull’uomo, alcune di esse verificavano semplicemente le differenze tra alimentazione “normale” e Ramadan (6), le differenze tra monopasto giornaliero e pasti frequenti (7,8,9), o le differenze tra lo stesso monopasto giornaliero consumato in diverse ore della giornata (8,10,11), spesso senza gruppo di controllo (10,11). Non riflettendo le normali abitudini del soggetto medio le modalità in monopasto giornaliero e il Ramadan possono risultare dei fattori confondenti, pertanto questo tipo di analisi rischia non rispondere precisamente alla domanda sull’effetto causale del meal timing in un contesto realistico. Alcune di queste ricerche verificavano semplicemente le differenze nella frequenza dei pasti, e, anche se questo può alterare il meal timing, risulta impossibile isolare l’effetto causale delle due distinte variabili. Tra queste ricerche alcune duravano troppo poco per poter verificare delle rilevanti variazioni della composizione corporea (8,10,11).
Ulteriori ricerche specifiche sul meal timing sono state scarsamente monitorate, non prevedendo un accurato controllo delle variazioni della composizione corporea, ma solo del peso o di misurazioni antropometriche (10,12,13,14,15). Questo è un grosso limite in quanto il meal timing ha dimostrato di influire potenzialmente sui compartimenti corporei (16,17), cosa non rilevabile dalle sole variazioni di peso. Altre prevedevano un’alimentazione ad libitum e quindi l’assenza del controllo calorico-dietetico (12), rendendo ancora impossibile estrapolare il nesso di causalità. Infine, alcuni studi erano scarsamente controllati sotto l’aspetto delle variabili, risultando ancora inattendibili per stabilire il nesso causale (18,19).
Cosa dicono le ricerche ben controllate?
Come accennato in precedenza, le condizioni ideali per cui una ricerca può effettivamente individuare l’impatto causale del meal timing sulla composizione corporea consistono nel controllare e equiparare tutte le variabili (inclusa la frequenza pasti) tranne la distribuzione dell’apporto calorico giornaliero. Inoltre, la composizione corporea deve essere monitorata, e lo studio deve trovare una durata sufficientemente lunga. Probabilmente solo quattro studi nella letteratura scientifica peer review rientrano in questi criteri.
Il famoso studio di Keim et al. (1997) è stato con tutta probabilità il primo meglio organizzato per poter verificare l’effetto del meal timing sulla composizione corporea nella storia della ricerca. Qui venne confrontato su donne obese per 15 settimane l’effetto di una dieta ipocalorica (deficit ~500 kcal; 18% P, 60% C, 22% F) dove il 70% delle calorie veniva assunto entro il pranzo, contro l’assunzione della stessa dieta per il 70% assunta tra cena e dopo cena. Anche se il gruppo che assumeva più calorie entro il pranzo perse più peso, il peso perso in più era rappresentato solo dalla massa magra. Chi assumeva gran parte delle calorie tra cena e dopo cena preservò meglio la massa magra e perse più grasso (16).
Un altro degli studi meglio controllati sul meal timing è stato quello di Lombardo et al. (2014). I ricercatori somministrarono a due gruppi di donne sovrappeso/obese una dieta ipocalorica (deficit 600 kcal; 16% P, 59% C, 25% F), rispettivamente con il 70% o il 55% delle calorie giornaliere nella prima parte della giornata. Nonostante la similitudine tra le diete, dopo 3 mesi chi assumeva una colazione più abbondante perse meno massa magra e più grasso e peso rispetto a chi assumeva una cena più abbondante. Inoltre, chi assumeva più calorie nelle ore entro il pranzo riscontrò un maggiore miglioramento del profilo glicemico e insulinemico (17).
Il più recente studio di Bandin et al (2015) ha coinvolto un gruppo di 32 donne normopeso giovani sottoposte ad una dieta eucalorica (mantenimento; 15% P, 50% C, 35% F) da tre pasti al giorno, dove per due settimane il pranzo veniva consumato attorno alle 13:00-13:30, mentre per altre due settimane questo pasto veniva consumato attorno alle 16:30-17:00 (modalità crossover). La colazione e la cena venivano consumati sempre negli stessi orari, cioè alle 08:00 e alle 20:00, rispettivamente. La distribuzione calorica era 26% a colazione, il 47% a pranzo e il 27% a cena. La composizione corporea non ha subito variazioni tra un trattamento e l’altro, ma ritardando il pranzo di 3 ore la tolleranza al glucosio risultava peggiorata e si riduceva la termogenesi indotta dal cibo (TEF) (20).
Lo studio Versteeg et al (2017) è il più recente tra gli RCT condotti sul meal timing. Ventitre obesi maschi con problemi metabolici (resistenza insulinica-scarsa tolleranza al glucosio) vengono divisi a random in uno di due gruppi dove viene seguita una dieta ipocalorica al 50% del mantenimento (1300 kcal circa) con gli stessi macros (27% P, 37% C, 33-34% F), ma con un diverso meal timing, per 4 settimane: in un gruppo 50% calorie colazione, 35% pranzo 15% cena, nell’altro 15% a colazione, 35% a pranzo e 50% a cena. Dopo le 4 settimane entrambi i gruppi perdono peso e grasso epatico in maniera simile, e le variazioni della massa magra sono simili. Inoltre, vari parametri metabolici migliorano in maniera simile tra i gruppi. In questo studio la massa grassa è stata misurata in maniera indiretta, ma date le simili variazioni di peso e di massa magra, risulta che questa componente ha probabilmente subìto una riduzione simile tra i gruppi (21).
Commenti sugli studi
Lo studio di Keim presenta svariati punti forti, tra cui il preciso controllo calorico nella modalità in metabolic ward, il monitoraggio della composizione corporea, l’equiparazione della frequenza pasti e della composizione della dieta, e una durata sufficientemente lunga, 15 settimane in cui per metà veniva seguito uno e per metà l’altro protocollo (crossover). Le importanti limitazioni risiedevano in un numero limitato di soggetti (5 per gruppo, compensato però dal crossover), e il monitoraggio della composizione corporea poco accurato (TOBEC, simile alla BIA), che non poteva distinguere le varie componenti della massa magra (acqua, muscolo, glicogeno). Lo studio era in crossover, quindi i due gruppi si scambiarono lo diete a metà del periodo; questo avrebbe potuto alterare le variazioni della composizione corporea e confondere i risultati. Infatti la perdita di grasso era significativamente maggiore solo nel gruppo che per primo assumeva più calorie di sera, e avrebbe potuto riflettere semplicemente l’improvviso cambio di abitudini alimentari. Inoltre non ci fu il periodo di washout (un lasso di tempo abbastanza lungo tra un protocollo e l’altro), una prassi normalmente prevista negli studi in crossover per evitare che il trattamento precedente confonda i risultati dati da quello successivo.
I punti forti dello studio di Lombardo erano l’uso della DEXA per il monitoraggio della composizione corporea, ancora l’equiparazione della frequenza pasti, un più ampio campione di soggetti (18 per gruppo) e una lunga durata. D’altra parte lo studio non era in metabolic ward, e questo rende meno accurato il controllo e l’equiparazione dell’apporto dietetico-calorico tra i gruppi rispetto al precedente. Infatti le donne sovrappeso/obese sono notoriamente la popolazione che più tra tutte omette parte di ciò che riporta nei diari alimentari (underreporting) (22), la modalità prevista da questo studio. A differenza dello studio di Keim, quello di Lombardo confrontava due gruppi paralleli, cioè che mantenevano lo stesso trattamento per tutto il periodo di studio. Nel contesto ipocalorico questa procedura potrebbe essere più precisa per verificare l’effetto causale del meal timing sulle variazioni della composizione corporea rispetto al crossover, perché una maggiore massa grassa all’inizio dello studio può risparmiare meglio la massa magra rispetto alle fasi avanzate della perdita di peso. Una limitazione si riconosce nel fatto che il gruppo che mangiava un po’ di più nelle ore serali partiva con una massa grassa media minore di 3 kg e un peso medio minore di 6 kg, e questa disparità avrebbe potuto confondere i risultati. Infatti la perdita di grasso tende ad essere più rapida per chi è più grasso in partenza, dato che ha più grasso da mobilizzare (23).
Lo studio Bandin aveva coinvolto un campione abbastanza esteso (32 soggetti) di sole donne normopeso, la massa grassa era stata misurata con la BIA. Da notare che, al contrario dei precedenti, in questo caso l’alterazione del meal timing non consisteva in una diversa distribuzione delle calorie negli stessi pasti e negli stessi orari, ma solo nello slittamento del pasto centrale a distanza di 3 ore. Il periodo di washout è durato una settimana, dove i soggetti hanno consumato il pranzo a metà tra gli orari previsti nelle due fasi sperimentali. La durata delle fasi sperimentali è stata relativamente breve, sole 2 settimane, ma probabilmente sufficiente per verificare delle significative variazioni del grasso corporeo. La modalità in crossover e l’ampio campione di soggetti aumentano molto il potere statistico rendendo più attendibili i risultati complessivi. Non è dato sapere quanto abbia potuto incidere su questi risultati il pattern a 3 pasti dove, quando il pranzo veniva ritardato, aumentava molto il periodo digiuno tra la colazione e il pranzo. Rimane anche un dubbio su quanto abbia potuto influire la precisa distribuzione calorica 26% a colazione, 47% a pranzo e 27% a cena. Nonostante esistano diversi punti forti, la breve durata dei singoli trattamenti e le misurazioni poco accurate della composizione corporea ne riducono il valore.
Conclusioni
Sebbene gran parte della letteratura scientifica supporti il meal timing configurato con un apporto calorico maggiore nella prima parte della giornata, gli studi meglio controllati tra gli RCT sull’uomo che hanno analizzato l’effetto di questa variabile sono molto scarsi e contrastanti. Appare curioso notare che quasi tutti i documenti scientifici sul tema negli anni non abbiano citato lo studio di Keim et al. (16), ma spesso abbiano fatto affidamento su evidenze osservazionali o su animali a supporto della configurazione classica.
Bisogna considerare che il campione di soggetti presi in esame dagli unici tre RCT meglio controllati erano solo donne (di cui due solo su sovrappeso/obese), e non si può escludere che esistano delle differenze di genere. Non è dato sapere quanto influito il timing dei macronutrienti, una variabile che potrebbe condizionare i risultati (18) indipendentemente dalla distribuzione calorica. Infine, in almeno due di questi studi tutti i soggetti praticavano attività fisica regolare (16,17), che se da un lato li rende potenzialmente applicabili alla popolazione degli atleti, dall’altro può rappresentare un fattore confondente sui protocolli di studio in sé.
Se si estendessero i criteri di inclusione a quelle ricerche controllate in cui avveniva anche una variazione della frequenza dei pasti, molte altre confermerebbero una mancata influenza negativa sulla composizione corporea o sulle variazioni di peso assumendo anche tutto o gran parte dell’apporto calorico nelle ore pomeridiane/serali (6,7,8,10,11). Dato che l’attività fisica (oltre che gli orari in cui la si pratica) può alterare l’effetto del meal timing sulla composizione corporea, nella seconda parte si approfondirà la relazione tra queste due variabili, oltre ad offrire una visione alternativa su tale aspetto dell’alimentazione.
In ultima analisi per quanto possa esistere il rischio di un peggioramento di alcuni marker metabolici, il sospetto è che l’importanza del meal timing sia sopravvalutata rispetto ad altri aspetti dell’alimentazione spesso lasciati maggiormente in secondo piano.
Riferimenti:
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